venerdì 5 dicembre 2008

Bari e Lecce. Psicologia di una diversità

di Luigi Corvaglia
Mario Sansone, che, da critico letterario, era uso a guardare in profondità e che, da oriundo proveniente della non lontana piana dauna, poteva vedere Bari con occhi non nativi, ebbe a dire che questa è città “senza ironia e senza malinconia”. Non una critica. Una efficace, fredda, tagliente rasoiata descrittiva. Da oriundo salentino, non riuscirei a trovare maggiore sovrapponibilità fra questa fendente condensazione semantica e quanto, fino alla lettura di questa definizione, percepivo senza sapere esprimere. Un’epifania. Ecco. Questo volevo dire tutte le volte che farneticavo, sotto sguardi sempre più perplessi, di una seriosità ilare che copula con una tristezza rabbiosa. Lo so, non si capisce. Appunto. Sguardo profondo e occhi non nativi servono a vedere, non a descrivere. Sansone mi è venuto in soccorso. Fatto è che questa definizione, nel suo essere il preciso negativo della fotografia della città che nelle Puglie è il contraltare storico del capoluogo regionale, cioè Lecce, mi permette di riflettere sulle differenze profonde tra i territori di cui le due città sono riferimenti storici e amministrativi.
Lecce la sapevo descrivere molto bene anche prima di conoscere il giudizio di Sansone su Bari. La città salentina è luogo di straripante ironia e sottile malinconia. E’ riflettendo su questo che diviene immediatamente comprensibile, al di là di lingue e campanili, al di là di ripicche storiche e calcistiche, di orgogli snobistici e fierezze mercantili, la lontananza incolmabile fra Puglia e Salento. Non di distanza culturale trattasi, bensì di contrapposizione psicologica. Questo un “forestiero” non lo capirà mai. Non capirà che la distanza “mentale” fra la sua terra, anche lontana, e una qualunque zona di questa entità geografica difficilmente potrà essere maggiore di quella che esiste fra le due aree che, muovendosi lungo la SS16, con lentezza esasperante, scivolano l’una nell’altra. Il Salento, con le sue mollezze ispaniche, i suoi centri arabi, le sue coste greche, la sua lingua sicula è più vicina a Siracusa o Malaga che a Bari. La terra di Bari, operosa come nessuna nel Meridione d’Italia, colle sue bianche cattedrali romaniche, dure, nordiche, squadrate, che si specchiano nelle vetrine levantine (eppur sempre più simili a quelle di qualunque altra area del mondo “globalizzato”) sul mare si affaccia. Il Salento ne è circondato. E’ la differenza che esiste fra attività e passività. Il Salento è fatto di salotti barocchi di pietra rosa e gialla, è più adatto alla contemplazione, alla lentezza necessaria alla riflessione, alla creatività più che alla costruzione. Ironia e malinconia sono qualità artistiche che necessitano appunto di lentezza e contemplazione. C’è poco da fare, il barese è più pratico e la praticità non necessita di ironia e malinconia, anzi. Nel Salento tutto è tragico ma niente è serio. Una tendenza alla leggerezza, al sarcasmo, al canzonare che disinnesca quasi tutto, col rischio di perdere il contatto con l’importanza delle cose. I baresi prendono sul serio anche l’umorismo. Se Lecce è definita da Briggs “Firenze del Sud” e da Gregorovius “Atene delle Puglie”, Bari delle Puglie è Sparta. Essenziale, senza fronzoli inutili, maschia. Lecce è femmina. E’ molle e burrosa. Tutto fra queste aree, più states of mind che regioni fisiche, è contrapposto in termini psicologici. Ad esempio, il barese della costa sul mare ci vive, ci suda, ne trae storicamente sostentamento con fatica, non ne fa sfruttamento turistico. Il salentino ne è circondato, ma non ci vive e, soprattutto, non ne vive, non direttamente. Il mare lo sfrutta indirettamente. Lo fa usare agli altri, i turisti, per averne sostentamento. Una differenza che è prototipica e incredibilmente esplicativa della non amalgamabilità delle due substantiae di cui trattasi. Dice il barese che, se Parigi avesse il mare, sarebbe una piccola Bari. Il mare è centrale nell’immaginario barese. “Mare, vidi e fusci”, dice il salentino, che, più contadino che marinaro, ne diffida (e aggiunge “taverna, vidi e trasi”). Eppure il tramonto sul lungomare di Bari, dietro i tetti e i campanili della città vecchia è una cartolina di rara bellezza che si guarda distrattamente. I tramonti del Salento no, non sono sfondo della vita, sono la vita. Ogni mutazione di colore, ogni sospiro di vento, ogni battito di tamburello, ogni silenzio è in grado di produrre una saudade brasiliana. C’è, in tutto ciò che è salentino, lo stesso misto agrodolce di tristezza e allegria che è dei popoli latinoamericani. Non è un caso che siano anch’essi ispanici e non certo normanni. Il Salento è allegro come una samba e, come una samba, lascia un retrogusto di tristezza. E’ malinconico come un funerale greco e festoso come un funerale a New Orleans. Il Salento è il paese “così sgradito da doversi amare” di Vittorio Bodini. Un ossimoro fatto terra, sole, mare e vento.
Tommaso Fiore disse che i pugliesi sono “un popolo di formiche”. Non conosceva i salentini, popolo di cicale. Così, mentre un altro intellettuale operante in città, lo scrittore Gianrico Carofiglio, può dire che “a Bari la modernità è arrivata quasi di sorpresa”, noi possiamo dire che i salentini non si farebbero mai sorprendere. Come cecchini appostati fra gli ulivi enormi e contorti, la modernità la fermerebbero al confine settentrionale della linea messapica. Nella città di Lecce, fra circolo cittadino, messe in onore dei Savoia e la voce di Tito Schipa che si spande a mezzogiorno in Piazza Sant’Oronzo, si vive in un ottocento appena turbato dalle volgarità moderne che sono riuscite a penetrare la linea della via Appia. Nelle campagne, al contrario, si modernizza la musica della tradizione e dell’isteria.
Bari guarda avanti, Lecce indietro. Si guarda ai passati fasti nobiliari come alle tradizioni contadine, ci si arrocca, si scalano torri d’avorio, ci si autoghettizza in un magnifico isolamento a metà fra “mal d’Africa” e provinciale spocchiosità. Ecco perché i tifosi del Bari hanno commesso un autogol involontario quando, durante un recente derby calcistico, hanno presentato uno striscione, nelle intenzioni molto offensivo, che recava scritto, con destinataria la popolazione salentina, “voi non siete come noi”. Questo vuol dire che, nel loro sguardo disincantato di gente pratica, i baresi non hanno capito che ciò che per loro era un insulto, per i leccesi era una rassicurazione. Questo può apparire solo snobismo da sopravvissuti della storia convinti di vivere al centro del mondo. Vero. Ma non solo. Se si pensa solo questo, ancora una volta, si dimostra di non conoscere il Salento. Si dimostra di non rendersi conto che, fuori città, la popolazione salentina è fatta prevalentemente da umili contadini e professionisti di prima generazione, figli di quei contadini. Niente affatto da orgogliosi nobilastri fuori dal tempo, ma dai loro braccianti. La fierezza di queste genti viene da altri luoghi e da altre storie. Viene, ad esempio, dalla consapevolezza di essere come nocchieri su una nave alla deriva che nasconde gioielli nella stiva, di essere riusciti, nel loro isolamento, a strappare pane ad una terra arsa e creato cultura in un budello ai limiti del mondo occidentale; ma viene anche dallo scippo dell’autonomia regionale che ne ha rafforzato il senso identitario, viene dalla diffidenza proprio per quell’atteggiamento sufficiente che vedono nei “colonizzatori” baresi, loro “governanti” eppure così diversi, così incomprensibili, e che questi ultimi spesso proiettano sui salentini. Se per i baresi i leccesi sono dei fanatici egocentrici, per i salentini i baresi sono dei fanatici egocentrici! Perché non riescono a vedere le storture che proiettano gli uni sugli altri? Perché a dividerli è ben più che uno stereotipo. Il leccese è falso e cortese, il barese vero e scorbutico (e, per il salentino, è anche ladro e scippatore). Si potrebbe continuare a lungo ad elencare riduzioni e schematismi con cospicue dosi di realtà, ma, se proprio vogliamo trovare il nocciolo di questa contrapposizione, credo che tutto si riduca a quanto mi ritrovavo a notare un giorno con un amico barese in gita a Lecce. Facendogli da Cicerone, mi si presentò la metafora della “citta molle” da contrapporsi alla sua “città dura”. Bari, convulsa, mercantile e dalle velleità metropolitane, è luogo di insolita durezza. Qui anche le donne hanno qualcosa di maschile, anche i bambini qualcosa di adulto. A Lecce anche gli uomini hanno qualcosa di femminile, anche gli adulti qualcosa di infantile. C’è più ironia. Lecce è molle, molle nei ritmi rilassati, nel suo tempo sospeso, nelle curve dei suoi palazzi, nei grappoli d’uva ricavati nella pietra, nei tavolini dei bar. Un fastoso carro allegorico senza motore, una scenografia di cartapesta. E’ bellissima e lo sa. Come una vecchia signora ancora ben tenuta mostra con sfacciataggine le proprie grazie, le butta in faccia al visitatore che ne rimane turbato, piacevolmente rapito. Bari no. Bari è maschia, rude, riservata. Non stordisce il visitatore con le sue bellezze, non si mostra. Si fa scoprire poco a poco. Non è spagnolesca, è normanna, lineare e squadrata come una cattedrale romanica. Fa sì che le diffidenze iniziali si sciolgano lentamente. Sa farsi apprezzare anche senza giocarsi la carta della seduzione.
Lecce è soporifero incanto, Bari vigile disincato. Lecce è maniera, Bari è mestiere. Lecce è arte, Bari artigianato. Gli esteti preferiscono l’arte, le persone pratiche l’artigianato.
Anche i rispettivi strati popolari sono molto diversi. Le “plebi” salentine sono umili e dignitosissime, a loro modo allegre, femminili, rotonde e aperte come le vocali della loro lingua, hanno la scorza morbida. I quartieri popolari di Bari, Molfetta, Andria, popolati da una umanità sfrontata poco incline a preoccuparsi della dignità, hanno la scorza dura, dura come le espressioni maschie e determinate delle donne dai visi squadrati, dure come l’aspra loro lingua. Sono così lontani dal mondo altoborghese del quartiere Murat o di alcune magioni di Trani che ne diffida profondamente. Sembrano due popoli diversi, non integrati. Nel Salento non si coglie assolutamente questa distanza, questa si latinoamericana, con buona pace del supposto snobismo.
In tutto ciò, in questo rapporto di simmetria fra opposti, in questo gioco di positivo e negativo fotografico è il vero senso delle rivendicazioni di autonomia del Salento, cioè della volontà di conferma legale di una realtà di fatto. La realtà di fatto è che la assurda unificazione amministrativa del 1946, non solo non ha ancora amalgamato le due entità geo-culturali, ma ha posto le condizioni per poter creare un continuo confronto dialettico col coinquilino forzato. Non è quindi in un semplicistico fanatismo basato su una supposta superiorità, cari amici baresi, che si trova il senso delle voglie secessioniste del vostro villaggio vacanze estive, bensì nell’orgoglio di una identità vissuta, a torto o a ragione, mortificata. Si, è vero che, in certi ristretti ambienti leccesi, ad esser mal tollerata è la nuova condizione di periferia delle periferie della città più importante e raffinata delle Puglie a vantaggio di quello che percepiscono come un porto di pescatori e volgari mercanti. Ma non è questo che rende la richiesta di autonomia valida e non è questo che la dovrebbe rendere non valida. Lo spirito di rivalsa rischia sempre di tramutarsi nella stupida idea di un superiorità morale nei confronti di chi si trova in condizione di superiorità di fatto. Gli afroamericani islamici predicano una supposta superiorità razziale dei neri. Ma essere bianchi o neri, maschi o femmine, duri o molli, barocchi o romanici non implica essere migliori o peggiori, implica essere diversi, ontologicamente differenti. Ecco il perché di una battaglia, forse velleitaria, forse a rischio di scivolate para-leghiste, ma condotta sempre alla salentina, con poco impegno, fra un festival della pizzica e una pittula, con lentezza e contemplazione, ma, soprattutto, con ironia e con malinconia.