lunedì 28 luglio 2008

L'idiozia chiamata "Grande Salento"

Interessante intervento del Sindaco di Ginosa Luigi Montanaro, il quale, mentre da più parti si partoriscono entità deformi come il "Grande Salento", un aborto intellettuale che si inventa un Salento che confina con la Basilicata, nonchè un partitino velleitario ("Salento Libero Regione") che ripropone la medesima idiozia pretendendo che venga sacralizzata dal Governo, scrive:


Il Grande Salento c'è! Ma chi sono i Salentini?


Da più parti si fa un gran parlare del progetto "Grande Salento" che unisce le Amministrazioni provinciali di Brindisi, Lecce e Taranto con i seguenti obiettivi: l'aeroporto di Brindisi diventerà l'aeroporto del Grande Salento, i due porti di Taranto e Brindisi concorreranno sinergicamente per le attività industriali e commerciali effettuate via mare. Il turismo si snoderà per le vie del Barocco e per l'antica terra dei Messapi. Secondo gli intenti dei promotori, il territorio ricalca sostanzialmente l'antica terra d'Otranto, omogenea per vocazioni e tradizioni e tenta di superare ogni forma di campanilismo. Dal punto di vista geografico territoriale, però, il Salento è situato tra il mar Jonio ed il mare Adriatico e delimitato dalla cosiddetta "soglia messapica", una depressione che corre lungo la linea Taranto-Ostuni e che lo separa dalle Murge.
Questa terra, dai greci anticamente chiamata Messapia, era appunto abitata dai Messapi o Sallentini, che difendevano la propria autonomia dallo strapotere dell'antica città di Taras. Parliamo perciò di una netta contrapposizione tra la Messapia e Taranto. Il Salento, anche dal punto di vista linguistico, non comprende Taranto (dove si parla il dialetto tarantino), né il resto della sua provincia ad ovest del capoluogo (dove si parla generalmente il dialetto pugliese.
Si potrebbe continuare citando le differenze della provincia jonica dal versante occidentale con il Salento dal punto di vista delle risorse agro-alimentari, delle peculiarità urbanistiche e architettoniche etc. Lo stesso territorio della Terra delle gravine ben si distingue dal resto del Salento.
Allora, ben a ragione, Pietro Giacovelli, assessore della Provincia di Taranto alle Aree Protette, sostiene che l'idea del Grande Salento sia "un po' avveniristica e abusata" poiché non devono confondersi le identità culturali di tre distinti popoli: "...quello della Terra delle gravine, dei Messapi e dei salentini".
Ciò che è da rimarcare, infatti, è che l'operazione "Grande Salento" rischia di snaturare l'idea e l'identità del Salento quando fa coincidere tale area con quella delle intere tre province, incluse, cioè, la città di Taranto ed il territorio al suo nord ovest (Ginosa, Laterza, Castellaneta, etc.) e i comuni del nord brindisino come Fasano e Cisternino, lontani per cultura e lingua, al Salento. Negli intenti dei promotori le idee legate al progetto "Grande Salento" potrebbero essere di grande suggestione in quanto si discute di un progetto inteso come "sistema Salento" che si riconosce parte a sua volta del "sistema Puglia".
In realtà, all'immagine patinata e accattivante che il Salento è riuscito a conquistarsi in questi ultimi anni, troppo spesso è corrisposta una realtà con irrimediabili punti deboli, legati essenzialmente alle peculiarità diverse che contraddistinguano appunto il territorio nella sua complessità. Non esiste crescita, individuale e collettiva, se non esiste il riconoscimento della propria individualità. Come può mai svilupparsi un territorio, grande come quello della provincia di Taranto, se - consapevole delle proprie peculiarità dal punto di vista geografico, paesaggistico, linguistico, economico, culturale-, non si fa promotore di se stesso all'interno del contesto locale e nazionale?
Quale cittadino del versante occidentale della provincia di Taranto potrebbe mai affermare di essere salentino? I salentini, in realtà, li riconosciamo come diversi da noi ginosini, laertini etc. Semmai il nostro tipo di vissuto culturale ed economico ci avvicina alle popolazioni limitrofe lucane, al territorio di Metaponto con i suoi scavi archeologici, a quello di Matera con i suoi settori produttivi. Allora un sistema di concertazione con questi territori avrebbe più senso perché ci sarebbero maggiori affinità ed interessi economici e culturali. La stessa città di Taranto, con la sua popolazione di ben 200.000 abitanti, potrebbe fungere da volano di sviluppo per tutta la sua provincia, avviando una politica di riscatto economico e culturale.
Ci si chiede se Taranto potrà farcela per emergere e distinguersi grazie alle sue ricchezze storiche, culturali, paesaggistiche, industriali. L'auspicio è che ciò accada. Nell'interesse dei tarantini, ma anche di tutti i pugliesi. In che modo? Magari creando un nuovo marchio: "Costa Jonica", che veda coinvolto tutto il territorio della costa jonica, appunto, da Taranto fino alle coste lucane e calabresi. Affinità geografiche, orografiche, storiche, linguistiche ed economiche legano la provincia jonica occidentale ai territori della Basilicata e della Calabria. Parliamo in questo caso di una realtà caratterizzata da grande omogeneità, un sistema già concreto, esistente realmente, cui manca solo un riconoscimento formale. Potremmo creare un sistema tale che ci consenta non di contrapporci semplicemente al "grande Salento" o alle altre realtà pugliesi, ma di competere su larga scala e sviluppare le nostre realtà in modo sinergico.
Taranto può, anzi, deve svolgere il ruolo di centro propulsore di questo sviluppo, poiché ne ha i presupposti storico-culturali e le necessarie infrastrutture: il porto, il vicino aeroporto, i collegamenti stradali e autostradali, la rete ferroviaria. La classe dirigente sarà in grado di raccogliere la sfida per attuare questo ambizioso progetto? Ma, soprattutto, ci sarà la volontà politica per realizzarlo?



Avv. Luigi Montanaro sindaco di Ginosa

domenica 27 luglio 2008

Salento libero? Si. Leghismo? No


L’atteso ritorno delle voci irredentiste del fin troppo “redento” Salento, mi induce a un duplice e contraddittorio stato emotivo. Da un lato, infatti, la mia anima romantica non può che gioire nel constatare come questa irripetibile terra, pur dopo un processo di omologazione forzata operata a partire dall’assurdo accorpamento alla Puglia nel 1947, riesce ancora a produrre conati di dignità, brividi identitari, sussulti di fierezza. D’altro canto, non poca è la preoccupazione della mia anima libertaria davanti al bivio che tradizionalmente si palesa innanzi ad ogni sogno indipendentista, ossia la doppia faccia della medaglia secessionista e federalista. Se, infatti, come dice Dino Colafrancesco “la destra è apologia del radicamento, la sinistra dell’emancipazione”, ogni ipotesi di separazione da un aggregato nazionale, regionale o d’altro genere può esser letto attraverso ognuna delle due lenti citate. In un’ottica proudhoniana, di “federalismo delle differenze”, la scissione da più ampie entità rappresenta l’emancipazione e, in quanto tale, la modernità. In questa concezione, il federalismo si coniuga con l’autonomizzazione, non solo di settori di territorio, ma soprattutto degli individui che lo calpestano. E’ la pratica dell’autogestione che si realizza mediante libere associazioni e liberi contratti. Una dinamica questa che investe ogni aspetto, da quello economico a quello giuridico, e che parte dalla sicurezza che l’armonia nasce dalla complessità, dalla differenziazione e non, come spesso si crede, dall’unità indifferenziata. In tal senso, di questo processo non può che far parte anche il decentramento. Accanto a tale visione, però, è facile constatare l’esistenza di una opposta concezione in cui il decentramento non è più un mezzo per l’individuazione e la differenziazione, bensì il fine ultimo in una logica di salvaguardia proprio di una unità indifferenziata cui si danno connotati etnici. Questa corrente di pensiero è inquadrabile nella cosiddetta “nuova destra” ed è perfettamente rappresentata in Italia dalla Lega Nord. La nuova destra, i cui ideologici vengono spesso incomprensibilmente vezzeggiati da certa ultra-sinistra (?) anarchica (?), si caratterizza per il rigetto della modernità intesa quale luogo del livellamento di un ordine mondiale basato sugli ideali universalisti e ugualitari post-illuministici. Lungi dal produrre un pensiero centrato sull’autonomia dinamica degli individui liberamente arrangiati, il federalismo neo-destro vede il suo perno nel radicamento, nella premoderna stasi della comunità organica, della antica Gemeinshaft in cui la cesura fra dentro e fuori era netta e corrispondente alla coppia amico-nemico. Il meccanismo di esclusione che si determina nella psicologia dello pseudo federalismo legaiolo è stata spiegata da Gianfranco Miglio: “le differenze tra il Nord, il Centro e il Sud, alla base della proposta di tre macroregioni all’interno di un’Italia confederale, si giustificherebbero in un diverso modo di comportarsi, ragionare, vivere, e anche se vi sono - annota Miglio - perfino biologi che sostengono la permanenza di elementi genetici, come quelli etruschi e celti, alla base delle differenti identità, “quello che conta è individuare delle aree in cui gli abitanti sentano coloro che stanno al di fuori come estranei: la conflittualità amicus-hostis”. Insomma, secondo un catechismo che deve ben poco a Proudhon e Cattaneo, ma molto a De Benoist, Evola e Faye, i popoli minacciati è solo radicalizzando i loro progetti indipendentisti, facendo leva sull’etnonazionalismo, che potranno contrastare quella modernità che si fonda su quei diritti dell’uomo che cancellerebbero le abitudini culturali e il senso di appartenenza alla comunità. Il nemico, insomma, è ogni forma di liberalismo e libertarismo. Il fine è la riproposizione di vere e proprie piccole nazioni su base etnica, le heimet della tradizione germanica.
Esiste, è vero, anche all’interno dei movimenti indipendentisti italiani una corrente intellettuale liberal-libertaria che contrappone alla nazione “oggettiva” teorizzata dal federalismo etnico la nazione delle volontà, sulla scorta dell’ultimo Rothbard (quello di “Nazioni per consenso”) e di Hans Hermann Hoppe, ma è talmente minoritaria che la sua flebile voce scompare fra i rutti cognitivi del populismo padano. Al più, rischia talvolta di fornire nobilitazione intellettuale ad alcune ben poco nobili tendenze razziste della base. Il pregiudizio nei confronti dell’altro ne è il collante.
In definitiva, come libertario (e, incidentalmente, come salentino), sogno un federalismo proudhoniano che, come ogni lungo viaggio, può iniziare con un piccolo passo, anche dallo svincolare il tacco d’Italia dalla colonizzazione pugliese che ne ha permesso, in barba alla storia precedente l’unità, l’emarginizzazione. Poca cosa? Certo. Ma giusta.
Mi duole però notare come dietro la rinnovata voglia d’autonomia del Salento ci siano personaggi più legati alla cultura della nuova destra che al federalismo libertario. Non solo, ma espressione di quella destra, tra l’altro, che più statalista non è possibile immaginare. Due considerazioni mi sorgono allora spontanee o, meglio, due citazioni mi vengono in soccorso. La prima è di un grande liberal-libertario, precursore dell’anarco-capitalismo di cui pure si fanno alfieri molti confusi ideologi federalisti contemporanei, Bruno Leoni, il quale diceva che il padrone vicino non è necessariamente meglio di quello lontano. La considerazione sulla qualità del “padrone” mi porta quindi alla seconda citazione, quella di un proverbio partenopeo che, più o meno, sentenzia che “è meglio essere testa di sardina che coda di balena”. Non vorrei che, sfruttando strumentalmente la sacrosanta insofferenza dei salentini, sia questa massima napoletana il vero primum movens degli animatori dei nuovi salotti dell’orgoglio salentino.


Luigi Corvaglia