lunedì 22 febbraio 2010

Monsieur Lapalisse, I suppose

Ogni tanto qualche voce sensata ristabilisce la realtà dei fatti. In questo caso una voce autorevole, quello del presidente della provincia jonica: Taranto non è nel Salento. Che la cosa sia così lapalissiana da far vergognare monsieur Lapalisse rende incredibile il fatto che qualcuno sia costretto a ricordarlo e ribadirlo. A definire l'identità di una cultura e di una terra non può che essere l'autoriconoscersi della gente in una una comunità che condivide lingua e tradizioni.

venerdì 29 gennaio 2010

Lecce è la provincia meno mafiosa del Sud

29 Gennaio 2010: Lo studio dell' Eurispes sulla "penetrazione" della criminalità organizzata nelle 24 province delle quattro Regioni meridionali interessate dal fenomeno piazza il Salento all'ultimo posto, il 24° (cioè al primo, secondo la graduatoria di "salute sociale"). La situazione peggiore a Napoli. Bari è all'ottavo posto.

venerdì 4 dicembre 2009

Alla ricerca della salentinità

di
Mario Marti

Magnifica relazione di Mario Marti sulla salentinità (e sua differenza dalla imperante salentineria).


“Identità salentina”, ovvero, con lessico più rapido ma omosemantico, salentinità (non bisogna aver paura delle parole). Dirò subito che, riflettendo sul problema della sua reale consistenza, ho notato che esso è emerso, e si è imposto all’attenzione degli interessati, almeno due volte, in epoca recente; e non momentaneamente, ma per un periodo di tempo piuttosto notevole. La prima volta fu negli ultimi decenni del sec. XIX, dopo la promulgazione dell’Unità d’Italia. Il contraccolpo regionalistico, più visibile nel campo delle scienze umane e delle arti figurative, prese allora corpo nella letteratura del “Verismo” (nella sua più ampia accezione), e nel regionalismo anche della pittura e della scultura. Il Salento vi si inserì storicamente, e sia pure occupando un suo minimo posto, rivelando tuttavia la consapevolezza di essere, di costituire, una regione. Notazione, mi pare, di una certa importanza; e certo più importante dei modi in cui la “regione” fu allora culturalmente sentita, valutata, esaltata. Si andò infatti alla ricerca e all’affermazione di una nobiltà storica delle “origini”; si trasse vanto dai leggendari rapporti con l’Oriente antico classico, donde sarebbero provenuti i fondatori delle città nostre; ci si riconobbe, alla lontana, nei Messapi, nei Greci antichi; e le vie di Lecce furono allora intitolate a Idomeneo, a Ferecide, a Malennio, a Euippa, e via dicendo, come a nobili e antichi e autentici antenati e progenitori... Ma la verità importante, da sottolineare storicamente, è che la nuova realtà dell’Unità nazionale dette nuovo corpo, quasi per reazione automatica, all’antica realtà della regione. E dirò anche “regione” riferendomi al Salento, poiché non condivido la tendenza di chi lo degrada a “sub-regione”, confondendo – a me pare – ciò che è amministrativo (Regione Puglia) oggi, con ciò che è stato sempre antropologico (Salento; e basterebbe pensare alla compatta e unitaria varietà dei dialetti locali, almeno fino alla fascia mista, che sta subito di là dalla linea Taranto-Brindisi). Né quella coscienza regionalistica post-unitaria del Salento, che fu di De Giorgi, certo, di De Simone, di Palumbo e dei loro coevi ed epigoni uomini di cultura “locale”, è accostabile, in qualche modo, alla rivendicazione avanzata dal Ferrari nella sua Apologia paradossica, considerato che il Ferrari tendeva a confermare Lecce a seconda città del Regno dopo Napoli; sullo sfondo dunque non della regione Salento, ma della più ampia Terra d’Otranto e del Regno intero.
La seconda volta, cioè il secondo periodo durante il quale è assai riemersa la coscienza della regione Salento, e s’è cercato anche di definirne l’identità antropologica, interrogandosi impegnativamente su che cosa sia e in che consista la salentinità, è quello nel quale siamo coinvolti tuttora noi stessi, come conferma e documenta anche la manifestazione del Basso Salento, dalla quale abbiamo preso le mosse, dedicata appunto alla “Identità salentina”. E’ probabile che si tratti, in sostanza, di una ripresa, dopo alcuni decenni di incubazione sotterranea, compresi quelli, anzi in particolar modo quelli, che esaltarono fuor di misura il centralismo statale e la compattezza politica nazionale. Certo si è che anche questa volta la fiammata, anzi la calda e persistente convinzione regionalistica, è stata sollecitata e motivata dagli avvenimenti della politica. Infatti, qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale (1945), e dopo lo storico referendum e la promulgazione della Repubblica Italiana (1946), fu definita ed emanata anche la nuova Costituzione (1948); la quale, al “Titolo V” e all’art. 115, così dispone: “Le regioni sono costituite in enti autonomi con propri poteri e funzioni, secondo i princìpi fissati dalla Costituzione”. E anzi venivano attribuite alla Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia Giulia e alla Valle d’Aosta “forme e condizioni particolari di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali” (art. 116). Non starò qui a ricordare e a ripetere la vicenda riguardante la proposta di una “Regione Salento”, che non passò; ricorderò solo che quegli furono anche gli anni della “Storia e geografia della letteratura” del Dionisotti, e della prima antologia delle letterature regionali di Binni e Sapegno. Insomma, venne a costituirsi una parallela linea regionalistica qui in Italia nel campo delle scienze umane: ed ecco l’impennata della poesia in dialetto (con relative storie e antologie), la feconda applicazione allo studio della microstoria e delle scienze antropologiche in genere, la vantaggiosa, nuova esaltazione del bene culturale, inteso non tanto, e non solo, nel suo valore universale, ma come oggetto prezioso collocato nel suo scrigno locale e antropologicamente decifrato; e così via. Ed ecco irrobustirsi sempre di più nei decenni l’interesse, lo studio, la necessità ideologica di conoscere e definire la propria identità regionale, le sue origini, la sua storia. In questo quadro storico io credo che debba esser collocato il problema della salentinità e dei suoi omologhi equivalenti allotrii, come sicilianità, napoletanità, ligusticità, milanesità e simili. Ora, che il Salento sia una regione, mi pare difficilmente contestabile: l’accordo, in questo, par che sia pressoché unanime. E dunque anche nel e per il Salento è emerso, fatalmente e vivacemente in questi ultimi decenni, il problema della salentinità. Tanto che, allo scadere degli anni Settanta del secolo scorso, un battagliero e dinamico giornale locale, denominato Nuovosalento, decise di condurre un’inchiesta, coordinata da Antonio Donno, sulla specifica questione. Io fui sollecitato a dire la mia; che par giusto e utile qui riprodurre nella sua parte più importante:“Salentinità”? “Cultura salentina”? Debbo dire che per me questi interrogativi non hanno mai avuto peso determinante. Passerebbe il mondo, se si dovesse definire in astratto la “salentinità”. A me basta la convinzione (inequivocabile, mi pare) che il Salento sia una “regione” almeno linguisticamente, e dunque anche storicamente, culturalmente, antropologicamente. “Salentinità”, “cultura salentina” sono, a mio giudizio, soltanto delle ipotesi di lavoro, che a volta a volta aggrediscono, con la varia metodologia, con la varia ideologia di chi lavora, tutte le “cose”, direttamente o indirettamente, legate alla “regione”, coinvolgendole nella generale analisi storico-culturale tout court. Ed è davvero singolare come studiosi, perentoriamente negatori di valori assoluti, si arrovellino poi a definire e a decifrare la “salentinità”, come categoria astratta, laddove essa è soltanto una ipotesi dinamica che opera (come le strutture di Starobinski) nel metodo e nella ideologia del ricercatore alla scoperta o alla reinterpretazione di quelle “cose” salentine (storia, cultura, antropologia); e tanto meglio opera, ipotesi siffatta, quanto più l’analisi dello studioso è condotta secondo rigore scientifico ed onestà morale e intellettuale. Questo io suggerivo e proponevo su Nuovosalento il 9 marzo del 1979, con alcune altre considerazioni non tanto sulla salentinità, quanto sul significato del “fare cultura nel Salento” o del “fare cultura salentina”. E chi volesse conoscere l’intervento tutto intero, lo troverebbe nelle mie Occasioni salentine, Lecce, 1986, pp. 17-19. Par chiaro che io puntavo sulla differenza fra due elementi passibili di confusione: salentinità e cultura salentina. E mi si lasci credere che quanto io indicavo circa la “cultura salentina” o il “fare cultura salentina”, sia sufficientemente ragionevole, liscio e dunque facilmente accettabile da ogni lettore non prevenuto. Sono cose piuttosto banali, che non vale la pena qui di riprendere e ripetere. Meno facile invece, forse meno agevole, il discorso sulla salentinità come ipotesi di lavoro; al quale gioverà certo qualche chiarimento e qualche integrazione. La salentinità non è, non può essere, una categoria metafisica né in senso kantiano, poiché non è una forma a priori, né in senso aristotelico, poiché è tutt’altro che un predicato universale. E non è, non può essere, neanche una categoria storiografica o un canone, poiché non si riferisce a una fenomenologia specifica calata nel tessuto concreto della realtà storica, in un preciso e ben limitato periodo di tempo. E non è neppure, non può essere, una raccolta di “cose” salentine più o meno rare e preziose a testimonianza di personale erudizione; oppure una serie di manifestazioni d’argomento salentino, sollecitata, generalmente parlando, da scopi commerciali e turistici. Per queste due ultime ipotesi, in verità, che si riferiscono, per altro, ad attività assai meritorie ai fini della vita culturale locale e nell’ambito dei locali interessi di carattere antropologico, sarebbero più da collocare sotto l’etichetta concreta di salentineria (le “cose”), che sotto quella astratta di salentinità. Per un periodo di tempo abbastanza lungo io tenni, sul Corriere del Giorno di Taranto, una rubrica d’argomento salentino, che intitolai appunto “Compra-vendita di salentineria”, in analogia con argenteria, oreficeria, bigiotteria e perfino panetteria, macelleria, ecc. Ma la salentinità – è ben chiaro – non si vende e non si compra. In fondo in fondo, ma bisogna arrivarci, salentinità è soprattutto un sentimento, una condizione psicologica e intellettuale, in sostanza un privilegiato e totale rapporto d’amore nei confronti di tutti gli aspetti, le condizioni, le manifestazioni del Salento da parte di chi nel Salento riconosca e senta la propria “piccola patria”. Una “piccola patria” che sta come prefazione della “patria grande”, come immagine, simbolo “figura” di essa; ma con un più di domestico, di naturale, direi di istintivo e di casalingo, che la distingue da essa, ma che, insieme, ne fa parte, dialetticamente. E insomma, senza scandalo alcuno e senza irriflessivi rigetti, la salentinità è, nella sua sostanza più segreta e più intimamente vissuta, la sublimazione, spontanea, istintiva, autenticamente interiore, e dunque pura, disinteressata, metastorica, della “provincia” salentina. Ovviamente, mutati i termini del problema, questo vale anche per le indicazioni antropologiche innanzi ricordate, di sicilianità, napoletanità, ligusticità, milanesità, ecc. Infine, la “provincia” come circolazione sanguigna della nazione. Con questo discorso son venuto a chiarire e a integrare – se non m’inganno – la formula un po’ chiusa ed ermetica della “salentinità come ipotesi di lavoro”. Essa in sostanza determinava due poli: a) l’assurdità e l’impossibilità di attribuire a “salentinità” valore, a qualsiasi livello, categoriale, come invece era emerso dall’inchiesta di Nuovosalento; onde la necessità di ulteriore riflessione e approfondimento; b) la certezza che comunque la “salentinità” stava a matrice e, per così dire, a placenta d’ogni maieutica d’argomento salentino. E ora, con tutto quello che ho scritto finora, spero d’avere sciolto il sinolo, e d’aver chiarito e adeguatamente integrato il mio pensiero al proposito. Del resto, che sia illusorio, in genere, identificare ideologicamente le antiche radici antropologiche (e non storiograficamente oppure geograficamente; e insomma di là da una qualsiasi leggendaria teoria delle origini preistoriche), appare dalla seguente incontestabile considerazione: la ricerca e la possibile identificazione delle più antiche radici antropologiche sono fatalmente condizionate dal grado, dalla qualità, dalle strutture anche metodologiche della cultura e della civiltà che sono vive al tempo dell’indagatore, e nelle quali l’indagatore è, sia pure inconsapevolmente, ingabbiato. Oggi, poniamo, si seguirebbero taluni criteri e diciamo anche che si perseguirebbero certi valori; ma criteri e valori sicuramente, oggi, diversi da quelli di cent’anni fa e più (come di passaggio s’è visto); e pure criteri e valori sicuramente diversi da quelli che saranno in vita fra cent’anni e più (per una cultura e una civiltà certamente assai diversa dalla nostra). La diversa condizione culturale, storica, ideologica, antropologica di base è assai presumibile e verosimile che porterebbe nei tre diversi “momenti” ipotizzati a tre diverse proposte risolutive. Un’altra ipotesi di lavoro, si direbbe. Questo non vuol dire che la regione Salento non abbia avuto, e non abbia ancora, i suoi “usi e costumi”; e che la stessa sua popolazione non sia segnata, sia pure presuntivamente e non totalitariamente, da tipiche tendenze. Per esempio, l’apertura, direi la vocazione naturale, al bello della poesia, della letteratura, delle arti figurative, al rigore del ragionamento sistematico e costruito, non privo di cavillosità. Non potrei, e non saprei, per il resto del mondo; ma almeno per l’Italia sarei pronto a giurare che non esiste altra regione più ricca di poeti in lingua e in dialetto, di prosatori e comunque amanti delle lettere, di saggisti d’ogni tipo, di pittori e di scultori. E per esempio ancora, una sorta di fatalistica lentezza levantina, incline alla rassegnazione o all’indifferenza passiva, imperturbabile, ironica; anche se il levantino maktub! è venuto attenuandosi di molto dopo la seconda guerra mondiale, in grazia di una maggiore e più mordente reattività. E’ pericoloso, e forse anche del tutto vano, procedere per questa strada; ma mi è venuto fatto di pensare che i due stili maggiormente onorati nella storia di un’architettura che insiste nel Salento, sono – guarda caso – il barocco e il liberty, e cioè quelli che maggiormente obbediscono all’estro e alla fantasia, più che alla regolarità delle forme chiuse. E questo mi pare assai significativo sotto il profilo della definizione del carattere antropologico locale.E gli “usi e costumi” ci furono, e come!, tanto tipici ed esclusivi, e ci sono ancora, anche se sono andati attenuandosi e magari spegnendosi a mano a mano che si andava attenuando e spegnendo la vecchia civiltà contadina di fronte all’evidente, anche qui, fenomeno del globalismo. E le peculiarità gastronomiche, che quasi del tutto hanno ormai perduto certa sacralità cronologica di ricorrenza da onorare (cìceri e tria per San Giuseppe; le pìttule natalizie, ormai addirittura servite come componenti d’antipasto qualsiasi!). E le prefiche, le tarantate, i folli trionfi della pizzica-pizzica, i costumini votivi ai bimbi miracolosamente guariti...Ecco: mentre pensavo a tutto questo, anche alla ricerca mnemonica di altro analogo materiale, m’è balzato alla mente, dal più riposto e antico angolo dei ricordi, un detto, che mi rimase impresso dai tempi della prima Liceo (1931-1932, a Galatina), studiando il periodo greco, il più antico, della storia della filosofia: “Amico, vedo il cavallo, ma non la cavallinità”.Mi sono rivolto all’amico Giovanni Papuli, dottissimo di filosofia antica (che qui voglio anche ringraziare) per la sua identificazione sicura. Ed egli, dopo breve ricerca, m’ha assicurato che si tratta di Antistene di Atene, il fondatore della Scuola cinica greca, e perciò contrario alla teoria platonica delle idee: «O Platone, vedo il cavallo, ma non la cavallinità». Proprio così; e io riducevo il detto al mio caso: «Amico lettore, io vedo il Salento, ma non la salentinità». E se la vedo, è solo nel cuore e nelle cure dei Salentini autentici.

venerdì 5 dicembre 2008

Bari e Lecce. Psicologia di una diversità

di Luigi Corvaglia
Mario Sansone, che, da critico letterario, era uso a guardare in profondità e che, da oriundo proveniente della non lontana piana dauna, poteva vedere Bari con occhi non nativi, ebbe a dire che questa è città “senza ironia e senza malinconia”. Non una critica. Una efficace, fredda, tagliente rasoiata descrittiva. Da oriundo salentino, non riuscirei a trovare maggiore sovrapponibilità fra questa fendente condensazione semantica e quanto, fino alla lettura di questa definizione, percepivo senza sapere esprimere. Un’epifania. Ecco. Questo volevo dire tutte le volte che farneticavo, sotto sguardi sempre più perplessi, di una seriosità ilare che copula con una tristezza rabbiosa. Lo so, non si capisce. Appunto. Sguardo profondo e occhi non nativi servono a vedere, non a descrivere. Sansone mi è venuto in soccorso. Fatto è che questa definizione, nel suo essere il preciso negativo della fotografia della città che nelle Puglie è il contraltare storico del capoluogo regionale, cioè Lecce, mi permette di riflettere sulle differenze profonde tra i territori di cui le due città sono riferimenti storici e amministrativi.
Lecce la sapevo descrivere molto bene anche prima di conoscere il giudizio di Sansone su Bari. La città salentina è luogo di straripante ironia e sottile malinconia. E’ riflettendo su questo che diviene immediatamente comprensibile, al di là di lingue e campanili, al di là di ripicche storiche e calcistiche, di orgogli snobistici e fierezze mercantili, la lontananza incolmabile fra Puglia e Salento. Non di distanza culturale trattasi, bensì di contrapposizione psicologica. Questo un “forestiero” non lo capirà mai. Non capirà che la distanza “mentale” fra la sua terra, anche lontana, e una qualunque zona di questa entità geografica difficilmente potrà essere maggiore di quella che esiste fra le due aree che, muovendosi lungo la SS16, con lentezza esasperante, scivolano l’una nell’altra. Il Salento, con le sue mollezze ispaniche, i suoi centri arabi, le sue coste greche, la sua lingua sicula è più vicina a Siracusa o Malaga che a Bari. La terra di Bari, operosa come nessuna nel Meridione d’Italia, colle sue bianche cattedrali romaniche, dure, nordiche, squadrate, che si specchiano nelle vetrine levantine (eppur sempre più simili a quelle di qualunque altra area del mondo “globalizzato”) sul mare si affaccia. Il Salento ne è circondato. E’ la differenza che esiste fra attività e passività. Il Salento è fatto di salotti barocchi di pietra rosa e gialla, è più adatto alla contemplazione, alla lentezza necessaria alla riflessione, alla creatività più che alla costruzione. Ironia e malinconia sono qualità artistiche che necessitano appunto di lentezza e contemplazione. C’è poco da fare, il barese è più pratico e la praticità non necessita di ironia e malinconia, anzi. Nel Salento tutto è tragico ma niente è serio. Una tendenza alla leggerezza, al sarcasmo, al canzonare che disinnesca quasi tutto, col rischio di perdere il contatto con l’importanza delle cose. I baresi prendono sul serio anche l’umorismo. Se Lecce è definita da Briggs “Firenze del Sud” e da Gregorovius “Atene delle Puglie”, Bari delle Puglie è Sparta. Essenziale, senza fronzoli inutili, maschia. Lecce è femmina. E’ molle e burrosa. Tutto fra queste aree, più states of mind che regioni fisiche, è contrapposto in termini psicologici. Ad esempio, il barese della costa sul mare ci vive, ci suda, ne trae storicamente sostentamento con fatica, non ne fa sfruttamento turistico. Il salentino ne è circondato, ma non ci vive e, soprattutto, non ne vive, non direttamente. Il mare lo sfrutta indirettamente. Lo fa usare agli altri, i turisti, per averne sostentamento. Una differenza che è prototipica e incredibilmente esplicativa della non amalgamabilità delle due substantiae di cui trattasi. Dice il barese che, se Parigi avesse il mare, sarebbe una piccola Bari. Il mare è centrale nell’immaginario barese. “Mare, vidi e fusci”, dice il salentino, che, più contadino che marinaro, ne diffida (e aggiunge “taverna, vidi e trasi”). Eppure il tramonto sul lungomare di Bari, dietro i tetti e i campanili della città vecchia è una cartolina di rara bellezza che si guarda distrattamente. I tramonti del Salento no, non sono sfondo della vita, sono la vita. Ogni mutazione di colore, ogni sospiro di vento, ogni battito di tamburello, ogni silenzio è in grado di produrre una saudade brasiliana. C’è, in tutto ciò che è salentino, lo stesso misto agrodolce di tristezza e allegria che è dei popoli latinoamericani. Non è un caso che siano anch’essi ispanici e non certo normanni. Il Salento è allegro come una samba e, come una samba, lascia un retrogusto di tristezza. E’ malinconico come un funerale greco e festoso come un funerale a New Orleans. Il Salento è il paese “così sgradito da doversi amare” di Vittorio Bodini. Un ossimoro fatto terra, sole, mare e vento.
Tommaso Fiore disse che i pugliesi sono “un popolo di formiche”. Non conosceva i salentini, popolo di cicale. Così, mentre un altro intellettuale operante in città, lo scrittore Gianrico Carofiglio, può dire che “a Bari la modernità è arrivata quasi di sorpresa”, noi possiamo dire che i salentini non si farebbero mai sorprendere. Come cecchini appostati fra gli ulivi enormi e contorti, la modernità la fermerebbero al confine settentrionale della linea messapica. Nella città di Lecce, fra circolo cittadino, messe in onore dei Savoia e la voce di Tito Schipa che si spande a mezzogiorno in Piazza Sant’Oronzo, si vive in un ottocento appena turbato dalle volgarità moderne che sono riuscite a penetrare la linea della via Appia. Nelle campagne, al contrario, si modernizza la musica della tradizione e dell’isteria.
Bari guarda avanti, Lecce indietro. Si guarda ai passati fasti nobiliari come alle tradizioni contadine, ci si arrocca, si scalano torri d’avorio, ci si autoghettizza in un magnifico isolamento a metà fra “mal d’Africa” e provinciale spocchiosità. Ecco perché i tifosi del Bari hanno commesso un autogol involontario quando, durante un recente derby calcistico, hanno presentato uno striscione, nelle intenzioni molto offensivo, che recava scritto, con destinataria la popolazione salentina, “voi non siete come noi”. Questo vuol dire che, nel loro sguardo disincantato di gente pratica, i baresi non hanno capito che ciò che per loro era un insulto, per i leccesi era una rassicurazione. Questo può apparire solo snobismo da sopravvissuti della storia convinti di vivere al centro del mondo. Vero. Ma non solo. Se si pensa solo questo, ancora una volta, si dimostra di non conoscere il Salento. Si dimostra di non rendersi conto che, fuori città, la popolazione salentina è fatta prevalentemente da umili contadini e professionisti di prima generazione, figli di quei contadini. Niente affatto da orgogliosi nobilastri fuori dal tempo, ma dai loro braccianti. La fierezza di queste genti viene da altri luoghi e da altre storie. Viene, ad esempio, dalla consapevolezza di essere come nocchieri su una nave alla deriva che nasconde gioielli nella stiva, di essere riusciti, nel loro isolamento, a strappare pane ad una terra arsa e creato cultura in un budello ai limiti del mondo occidentale; ma viene anche dallo scippo dell’autonomia regionale che ne ha rafforzato il senso identitario, viene dalla diffidenza proprio per quell’atteggiamento sufficiente che vedono nei “colonizzatori” baresi, loro “governanti” eppure così diversi, così incomprensibili, e che questi ultimi spesso proiettano sui salentini. Se per i baresi i leccesi sono dei fanatici egocentrici, per i salentini i baresi sono dei fanatici egocentrici! Perché non riescono a vedere le storture che proiettano gli uni sugli altri? Perché a dividerli è ben più che uno stereotipo. Il leccese è falso e cortese, il barese vero e scorbutico (e, per il salentino, è anche ladro e scippatore). Si potrebbe continuare a lungo ad elencare riduzioni e schematismi con cospicue dosi di realtà, ma, se proprio vogliamo trovare il nocciolo di questa contrapposizione, credo che tutto si riduca a quanto mi ritrovavo a notare un giorno con un amico barese in gita a Lecce. Facendogli da Cicerone, mi si presentò la metafora della “citta molle” da contrapporsi alla sua “città dura”. Bari, convulsa, mercantile e dalle velleità metropolitane, è luogo di insolita durezza. Qui anche le donne hanno qualcosa di maschile, anche i bambini qualcosa di adulto. A Lecce anche gli uomini hanno qualcosa di femminile, anche gli adulti qualcosa di infantile. C’è più ironia. Lecce è molle, molle nei ritmi rilassati, nel suo tempo sospeso, nelle curve dei suoi palazzi, nei grappoli d’uva ricavati nella pietra, nei tavolini dei bar. Un fastoso carro allegorico senza motore, una scenografia di cartapesta. E’ bellissima e lo sa. Come una vecchia signora ancora ben tenuta mostra con sfacciataggine le proprie grazie, le butta in faccia al visitatore che ne rimane turbato, piacevolmente rapito. Bari no. Bari è maschia, rude, riservata. Non stordisce il visitatore con le sue bellezze, non si mostra. Si fa scoprire poco a poco. Non è spagnolesca, è normanna, lineare e squadrata come una cattedrale romanica. Fa sì che le diffidenze iniziali si sciolgano lentamente. Sa farsi apprezzare anche senza giocarsi la carta della seduzione.
Lecce è soporifero incanto, Bari vigile disincato. Lecce è maniera, Bari è mestiere. Lecce è arte, Bari artigianato. Gli esteti preferiscono l’arte, le persone pratiche l’artigianato.
Anche i rispettivi strati popolari sono molto diversi. Le “plebi” salentine sono umili e dignitosissime, a loro modo allegre, femminili, rotonde e aperte come le vocali della loro lingua, hanno la scorza morbida. I quartieri popolari di Bari, Molfetta, Andria, popolati da una umanità sfrontata poco incline a preoccuparsi della dignità, hanno la scorza dura, dura come le espressioni maschie e determinate delle donne dai visi squadrati, dure come l’aspra loro lingua. Sono così lontani dal mondo altoborghese del quartiere Murat o di alcune magioni di Trani che ne diffida profondamente. Sembrano due popoli diversi, non integrati. Nel Salento non si coglie assolutamente questa distanza, questa si latinoamericana, con buona pace del supposto snobismo.
In tutto ciò, in questo rapporto di simmetria fra opposti, in questo gioco di positivo e negativo fotografico è il vero senso delle rivendicazioni di autonomia del Salento, cioè della volontà di conferma legale di una realtà di fatto. La realtà di fatto è che la assurda unificazione amministrativa del 1946, non solo non ha ancora amalgamato le due entità geo-culturali, ma ha posto le condizioni per poter creare un continuo confronto dialettico col coinquilino forzato. Non è quindi in un semplicistico fanatismo basato su una supposta superiorità, cari amici baresi, che si trova il senso delle voglie secessioniste del vostro villaggio vacanze estive, bensì nell’orgoglio di una identità vissuta, a torto o a ragione, mortificata. Si, è vero che, in certi ristretti ambienti leccesi, ad esser mal tollerata è la nuova condizione di periferia delle periferie della città più importante e raffinata delle Puglie a vantaggio di quello che percepiscono come un porto di pescatori e volgari mercanti. Ma non è questo che rende la richiesta di autonomia valida e non è questo che la dovrebbe rendere non valida. Lo spirito di rivalsa rischia sempre di tramutarsi nella stupida idea di un superiorità morale nei confronti di chi si trova in condizione di superiorità di fatto. Gli afroamericani islamici predicano una supposta superiorità razziale dei neri. Ma essere bianchi o neri, maschi o femmine, duri o molli, barocchi o romanici non implica essere migliori o peggiori, implica essere diversi, ontologicamente differenti. Ecco il perché di una battaglia, forse velleitaria, forse a rischio di scivolate para-leghiste, ma condotta sempre alla salentina, con poco impegno, fra un festival della pizzica e una pittula, con lentezza e contemplazione, ma, soprattutto, con ironia e con malinconia.

lunedì 28 luglio 2008

L'idiozia chiamata "Grande Salento"

Interessante intervento del Sindaco di Ginosa Luigi Montanaro, il quale, mentre da più parti si partoriscono entità deformi come il "Grande Salento", un aborto intellettuale che si inventa un Salento che confina con la Basilicata, nonchè un partitino velleitario ("Salento Libero Regione") che ripropone la medesima idiozia pretendendo che venga sacralizzata dal Governo, scrive:


Il Grande Salento c'è! Ma chi sono i Salentini?


Da più parti si fa un gran parlare del progetto "Grande Salento" che unisce le Amministrazioni provinciali di Brindisi, Lecce e Taranto con i seguenti obiettivi: l'aeroporto di Brindisi diventerà l'aeroporto del Grande Salento, i due porti di Taranto e Brindisi concorreranno sinergicamente per le attività industriali e commerciali effettuate via mare. Il turismo si snoderà per le vie del Barocco e per l'antica terra dei Messapi. Secondo gli intenti dei promotori, il territorio ricalca sostanzialmente l'antica terra d'Otranto, omogenea per vocazioni e tradizioni e tenta di superare ogni forma di campanilismo. Dal punto di vista geografico territoriale, però, il Salento è situato tra il mar Jonio ed il mare Adriatico e delimitato dalla cosiddetta "soglia messapica", una depressione che corre lungo la linea Taranto-Ostuni e che lo separa dalle Murge.
Questa terra, dai greci anticamente chiamata Messapia, era appunto abitata dai Messapi o Sallentini, che difendevano la propria autonomia dallo strapotere dell'antica città di Taras. Parliamo perciò di una netta contrapposizione tra la Messapia e Taranto. Il Salento, anche dal punto di vista linguistico, non comprende Taranto (dove si parla il dialetto tarantino), né il resto della sua provincia ad ovest del capoluogo (dove si parla generalmente il dialetto pugliese.
Si potrebbe continuare citando le differenze della provincia jonica dal versante occidentale con il Salento dal punto di vista delle risorse agro-alimentari, delle peculiarità urbanistiche e architettoniche etc. Lo stesso territorio della Terra delle gravine ben si distingue dal resto del Salento.
Allora, ben a ragione, Pietro Giacovelli, assessore della Provincia di Taranto alle Aree Protette, sostiene che l'idea del Grande Salento sia "un po' avveniristica e abusata" poiché non devono confondersi le identità culturali di tre distinti popoli: "...quello della Terra delle gravine, dei Messapi e dei salentini".
Ciò che è da rimarcare, infatti, è che l'operazione "Grande Salento" rischia di snaturare l'idea e l'identità del Salento quando fa coincidere tale area con quella delle intere tre province, incluse, cioè, la città di Taranto ed il territorio al suo nord ovest (Ginosa, Laterza, Castellaneta, etc.) e i comuni del nord brindisino come Fasano e Cisternino, lontani per cultura e lingua, al Salento. Negli intenti dei promotori le idee legate al progetto "Grande Salento" potrebbero essere di grande suggestione in quanto si discute di un progetto inteso come "sistema Salento" che si riconosce parte a sua volta del "sistema Puglia".
In realtà, all'immagine patinata e accattivante che il Salento è riuscito a conquistarsi in questi ultimi anni, troppo spesso è corrisposta una realtà con irrimediabili punti deboli, legati essenzialmente alle peculiarità diverse che contraddistinguano appunto il territorio nella sua complessità. Non esiste crescita, individuale e collettiva, se non esiste il riconoscimento della propria individualità. Come può mai svilupparsi un territorio, grande come quello della provincia di Taranto, se - consapevole delle proprie peculiarità dal punto di vista geografico, paesaggistico, linguistico, economico, culturale-, non si fa promotore di se stesso all'interno del contesto locale e nazionale?
Quale cittadino del versante occidentale della provincia di Taranto potrebbe mai affermare di essere salentino? I salentini, in realtà, li riconosciamo come diversi da noi ginosini, laertini etc. Semmai il nostro tipo di vissuto culturale ed economico ci avvicina alle popolazioni limitrofe lucane, al territorio di Metaponto con i suoi scavi archeologici, a quello di Matera con i suoi settori produttivi. Allora un sistema di concertazione con questi territori avrebbe più senso perché ci sarebbero maggiori affinità ed interessi economici e culturali. La stessa città di Taranto, con la sua popolazione di ben 200.000 abitanti, potrebbe fungere da volano di sviluppo per tutta la sua provincia, avviando una politica di riscatto economico e culturale.
Ci si chiede se Taranto potrà farcela per emergere e distinguersi grazie alle sue ricchezze storiche, culturali, paesaggistiche, industriali. L'auspicio è che ciò accada. Nell'interesse dei tarantini, ma anche di tutti i pugliesi. In che modo? Magari creando un nuovo marchio: "Costa Jonica", che veda coinvolto tutto il territorio della costa jonica, appunto, da Taranto fino alle coste lucane e calabresi. Affinità geografiche, orografiche, storiche, linguistiche ed economiche legano la provincia jonica occidentale ai territori della Basilicata e della Calabria. Parliamo in questo caso di una realtà caratterizzata da grande omogeneità, un sistema già concreto, esistente realmente, cui manca solo un riconoscimento formale. Potremmo creare un sistema tale che ci consenta non di contrapporci semplicemente al "grande Salento" o alle altre realtà pugliesi, ma di competere su larga scala e sviluppare le nostre realtà in modo sinergico.
Taranto può, anzi, deve svolgere il ruolo di centro propulsore di questo sviluppo, poiché ne ha i presupposti storico-culturali e le necessarie infrastrutture: il porto, il vicino aeroporto, i collegamenti stradali e autostradali, la rete ferroviaria. La classe dirigente sarà in grado di raccogliere la sfida per attuare questo ambizioso progetto? Ma, soprattutto, ci sarà la volontà politica per realizzarlo?



Avv. Luigi Montanaro sindaco di Ginosa

domenica 27 luglio 2008

Salento libero? Si. Leghismo? No


L’atteso ritorno delle voci irredentiste del fin troppo “redento” Salento, mi induce a un duplice e contraddittorio stato emotivo. Da un lato, infatti, la mia anima romantica non può che gioire nel constatare come questa irripetibile terra, pur dopo un processo di omologazione forzata operata a partire dall’assurdo accorpamento alla Puglia nel 1947, riesce ancora a produrre conati di dignità, brividi identitari, sussulti di fierezza. D’altro canto, non poca è la preoccupazione della mia anima libertaria davanti al bivio che tradizionalmente si palesa innanzi ad ogni sogno indipendentista, ossia la doppia faccia della medaglia secessionista e federalista. Se, infatti, come dice Dino Colafrancesco “la destra è apologia del radicamento, la sinistra dell’emancipazione”, ogni ipotesi di separazione da un aggregato nazionale, regionale o d’altro genere può esser letto attraverso ognuna delle due lenti citate. In un’ottica proudhoniana, di “federalismo delle differenze”, la scissione da più ampie entità rappresenta l’emancipazione e, in quanto tale, la modernità. In questa concezione, il federalismo si coniuga con l’autonomizzazione, non solo di settori di territorio, ma soprattutto degli individui che lo calpestano. E’ la pratica dell’autogestione che si realizza mediante libere associazioni e liberi contratti. Una dinamica questa che investe ogni aspetto, da quello economico a quello giuridico, e che parte dalla sicurezza che l’armonia nasce dalla complessità, dalla differenziazione e non, come spesso si crede, dall’unità indifferenziata. In tal senso, di questo processo non può che far parte anche il decentramento. Accanto a tale visione, però, è facile constatare l’esistenza di una opposta concezione in cui il decentramento non è più un mezzo per l’individuazione e la differenziazione, bensì il fine ultimo in una logica di salvaguardia proprio di una unità indifferenziata cui si danno connotati etnici. Questa corrente di pensiero è inquadrabile nella cosiddetta “nuova destra” ed è perfettamente rappresentata in Italia dalla Lega Nord. La nuova destra, i cui ideologici vengono spesso incomprensibilmente vezzeggiati da certa ultra-sinistra (?) anarchica (?), si caratterizza per il rigetto della modernità intesa quale luogo del livellamento di un ordine mondiale basato sugli ideali universalisti e ugualitari post-illuministici. Lungi dal produrre un pensiero centrato sull’autonomia dinamica degli individui liberamente arrangiati, il federalismo neo-destro vede il suo perno nel radicamento, nella premoderna stasi della comunità organica, della antica Gemeinshaft in cui la cesura fra dentro e fuori era netta e corrispondente alla coppia amico-nemico. Il meccanismo di esclusione che si determina nella psicologia dello pseudo federalismo legaiolo è stata spiegata da Gianfranco Miglio: “le differenze tra il Nord, il Centro e il Sud, alla base della proposta di tre macroregioni all’interno di un’Italia confederale, si giustificherebbero in un diverso modo di comportarsi, ragionare, vivere, e anche se vi sono - annota Miglio - perfino biologi che sostengono la permanenza di elementi genetici, come quelli etruschi e celti, alla base delle differenti identità, “quello che conta è individuare delle aree in cui gli abitanti sentano coloro che stanno al di fuori come estranei: la conflittualità amicus-hostis”. Insomma, secondo un catechismo che deve ben poco a Proudhon e Cattaneo, ma molto a De Benoist, Evola e Faye, i popoli minacciati è solo radicalizzando i loro progetti indipendentisti, facendo leva sull’etnonazionalismo, che potranno contrastare quella modernità che si fonda su quei diritti dell’uomo che cancellerebbero le abitudini culturali e il senso di appartenenza alla comunità. Il nemico, insomma, è ogni forma di liberalismo e libertarismo. Il fine è la riproposizione di vere e proprie piccole nazioni su base etnica, le heimet della tradizione germanica.
Esiste, è vero, anche all’interno dei movimenti indipendentisti italiani una corrente intellettuale liberal-libertaria che contrappone alla nazione “oggettiva” teorizzata dal federalismo etnico la nazione delle volontà, sulla scorta dell’ultimo Rothbard (quello di “Nazioni per consenso”) e di Hans Hermann Hoppe, ma è talmente minoritaria che la sua flebile voce scompare fra i rutti cognitivi del populismo padano. Al più, rischia talvolta di fornire nobilitazione intellettuale ad alcune ben poco nobili tendenze razziste della base. Il pregiudizio nei confronti dell’altro ne è il collante.
In definitiva, come libertario (e, incidentalmente, come salentino), sogno un federalismo proudhoniano che, come ogni lungo viaggio, può iniziare con un piccolo passo, anche dallo svincolare il tacco d’Italia dalla colonizzazione pugliese che ne ha permesso, in barba alla storia precedente l’unità, l’emarginizzazione. Poca cosa? Certo. Ma giusta.
Mi duole però notare come dietro la rinnovata voglia d’autonomia del Salento ci siano personaggi più legati alla cultura della nuova destra che al federalismo libertario. Non solo, ma espressione di quella destra, tra l’altro, che più statalista non è possibile immaginare. Due considerazioni mi sorgono allora spontanee o, meglio, due citazioni mi vengono in soccorso. La prima è di un grande liberal-libertario, precursore dell’anarco-capitalismo di cui pure si fanno alfieri molti confusi ideologi federalisti contemporanei, Bruno Leoni, il quale diceva che il padrone vicino non è necessariamente meglio di quello lontano. La considerazione sulla qualità del “padrone” mi porta quindi alla seconda citazione, quella di un proverbio partenopeo che, più o meno, sentenzia che “è meglio essere testa di sardina che coda di balena”. Non vorrei che, sfruttando strumentalmente la sacrosanta insofferenza dei salentini, sia questa massima napoletana il vero primum movens degli animatori dei nuovi salotti dell’orgoglio salentino.


Luigi Corvaglia